Una volta scherzavo con un cliente, un professore di archeologia dell’università di Agar, Marte, che mi diceva: «Ci credi, Angel? Il lavoro più antico del mondo, alla fine, è anche il più longevo!»
Il professore era un uomo sulla sessantina, in forma e ben curato, con i capelli brizzolati folti e tirati in dietro come un attore del cinema neptuniano. Si chiamava Raele Qualcosa, ed era uno dei più regolari. Si collegava una volta a settimana, il martedì sera, leggermente più tardi ogni volta per via della durata del giorno marziano. Quando veniva sulla Terra, una o due volte l’anno, non mancava di chiamarmi, e ovunque lui fosse, mi prenotava una stanza in uno degli hotel più lussuosi della città e mi pagava per tutte le ore che aveva sulla Terra.
«Sei una rarità, ecco la mia rarità,» diceva quando l’autotrasporto mi lasciava all’albergo.
«Me lo dicono spesso, Rey…»
Quel giorno eravamo saliti nella camera che aveva prenotato per me, una suite di quattro stanze arredata alla maniera antica. «Sembra di essere a Versaille,» aveva commentato aprendo due a due tutte le porte e perlustrando tutte le stanze. «Sai cos’è Versaille? Non ha importanza. Ho sentito dire che questo è l’albergo con il personale artificiale più discreto del continente. Puoi fare tutto quello che ti passa per la testa in queste stanze.»
«Sai che lo farò…» avevo risposto ammiccante, e nel frattempo avevo iniziato a sfilargli la cravatta.
Rey mi dava sempre quella sensazione di calore di un corpo conosciuto. «Quanti anni sono?» gli avevo chiesto, mentre sfilavo anche la cintura e sbottonavo pantaloni foderati antiradioattivi. «Sette, otto anni?»
«Otto anni.»
L’avevo baciato a lungo e profondamente. Non aveva gusti bizzarri o ricercati, niente attrezzi o giochi di ruolo, niente del genere. Per lui l’importante è che fosse un essere umano in carne ed ossa a farlo.
«Noi due, Angel, siamo i reperti di un mondo che non c’è più,» mi aveva detto, dopo che lo avevo scopato due volte. Si era alzato dal grande letto, aveva infilato la vestaglia ed era andato a prendere qualcosa nella valigia. Me l’aveva mostrato: era una sottile teca di carbonio che conteneva uno strato di pietra inscritta, con segni diversi da qualsiasi codice o alfabeto avessi mai visto. «Io e te siamo come questo.»
«È importante?» gli avevo chiesto, prendendo la teca dalle sue mani e avvicinandomi per guardare meglio.
«È la rivoluzione, caro il mio angelo. Domani lo presenterò alla conferenza interplanetaria degli archeologi, e ogni cosa cambierà. Vuoi sapere cosa c’è scritto?»
«Tu lo sai?»
«Già,» aveva riso piano. «Questa iscrizione ha circa quarantacinquemila anni. Viene dal Piccolo Continente, dove è stata trovata nel 1987, ma nessuno era ancora riuscito a decifrarla…»
«E tu ci sei riuscito?»
«Proprio così.» Rey si era seduto accanto a me sul bordo del letto e, indicandoli con il dito, mi aveva mostrato come quei curiosi segni componevano in realtà un sistema di calcolo. «Sono numeri.»
«Ma perché quelli della terza fila sono diversi?»
«Qui viene il bello, mio caro. Chi li ha fatti usava questo scritto come un promemoria, e mentre lo compilava ha usato simboli diversi perché attribuiva uno specifico valore a diversi, come dire… servizi. Capisci cosa intendo? Queste sono le note di un sistema di scambio, che è una cosa molto rara in una popolazione di cacciatori e raccoglitori. Essendo nomadi non avevano molti beni da scambiare, giusto?»
«Credo di sì…»
Rey mi aveva infilato le dita tra i capelli e mi accarezzava la nuca mentre con l’altra mano continuava a reggere la teca del tesoro. «Ebbene, ho trovato elementi per sostenere che, chiunque abbia inciso questi segni, scambiasse delle prestazioni sessuali con altri beni e favori. Questa persona dell’antichità faceva proprio il tuo mestiere.»
Senza parole, avevo guardato ancora le iscrizioni nella teca. Avrei dovuto sentirmi un po’ come allo specchio, ma niente in quei segni mi sembrava familiare, né il tratto né la forma, né intuivo come fossero stati fatti o perché. Non volevo dirlo a Rey, ma mi sembrava che parlasse di assurdità.
Mi aveva dato ancora un buffetto in testa e poi si era alzato a riporre la teca nella valigia. «Cos’è che ti impensierisce?»
«Non so Rey, non penso che quello che faccio sia proprio un lavoro. Non così almeno…»
«Certo, capisco. Lavoro è una parola antica, si usava per obbligo o per necessità. Ti confesso che non la capisco fino in fondo neanch’io… Ma ecco,» si era seduto di nuovo sul letto, con la vestaglia semiaperta sul petto bioricostruito, «io penso che ci sono delle attività, come la tua e la mia, che possono essere fatte solo da noi. Noi fraintendermi, ho fatto sesso con degli artificiali, sono fantastici davvero. Però, mi dico, che senso ha? Che importa l’origine della specie umana se non è un umano a cercare la sua stessa origine? Capisci cosa intendo?»
No, non capivo affatto quel che intendeva. Capivo però che noi due eravamo tra i pochi esseri umani che ancora facevano queste cose. E forse Rey aveva ragione, eravamo proprio un rigurgito del passato, come una vecchia roccia piena di scritte incomprensibili. E chissà come lui si era convinto che quella fosse la rivoluzione.
Stefano Zuliani, classe1996, torinese di adozione. È blogger e attivista eco-queer. Scrive di politica, coltiva l’utopia, si dedica alla cospirazione su giardino-punk.it
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