Tiro il cappuccio sulla testa per proteggermi dal vento. Settembre a San Milvio è come un novembre anticipato: freddo, umido, funereo. A quest’ora sarei dovuto essere al rifugio Fosco. Sono tre giorni che non lascio il paese. Tre giorni che non smette di piovere. Le nuvole sono così basse che non si vede neppure la cappella che dista duecento metri in linea d’aria. Non ho guanti. La mano con cui reggo l’ombrello è intirizzita per il freddo. Cambio mano e cerco un po’ di sollievo nella tasca del blazer. Ci trovo l’agenda che mi ha regalato Alice il giorno della discussione delle tesi. In questo momento lei è in Ladakh a cercare se stessa. Visitare in solitaria paesi fantasma nel basso Piemonte è sicuramente più originale come viaggio di laurea. Oltre a essere l’unica esperienza a portata delle mie tasche.
Non c’è altro passaggio a parte il Ponte del Diavolo per raggiungere la parte alta di San Milvio. In questi giorni l’ho attraversato spesso, ma ancora non mi spiego come si possa fare affidamento su una struttura tanto malridotta come solo collegamento col resto del mondo. Si può percorrere nei due versi, ma lo spazio è appena sufficiente per una macchina. Anche camminando rasente alla ringhiera le auto passano così vicine da sfiorarmi la giacca. L’asfalto è costellato di buche che con la pioggia si sono riempite d’acqua. Mi fermo a metà del ponte. Da qui i tetti delle case in pietra sembrano convergere, come per proteggere il paese da una luce che esiste solo sopra le nuvole.
Mi appoggio alla ringhiera. Sotto il ponte ci sono decine di pietre ammassate una sull’altra. Hanno tutte più o meno la stessa forma. Sembrano tante tessere del domino lanciate a caso da una mano gigante.
Sento un cigolio, un rumore acuto che aumenta d’intensità. Una vecchia vestita con gli stessi colori dei ruderi si ferma a un passo da me. La bicicletta che cavalca sembra messa anche peggio di lei.
«Quello è il cimitero dei folli,» dice.
Le farei notare che non ho chiesto niente, ma l’argomento mi interessa. La guardo meglio. Il suo volto è una rete di rughe. Le guance tonde sembrano scolpite in un sorriso eterno che ricorda le vecchie immagini di Babbo Natale nei poster Coca-Cola. Ma più inquietante.
«Quelle pietre. Le lapidi. Sono lì da prima che io nascessi.» È evidente che non servirà pregarla per farmi raccontare altro. Torno a guardare lo stato di totale abbandono in cui versa il cimitero.
«Perché nessuno se ne occupa? Non è terra consacrata?»
«No, certo che no. Forestieri. Si racconta siano arrivati in gruppo tanti, tanti anni fa. Ciascuno portava sulla schiena la propria lapide. Sono scesi sotto il ponte, hanno sistemato le lapidi e si sono lasciati morire.»
«Perché nessuno li ha seppelliti altrove?»
Per tutta risposta la vecchia alza le spalle.
«C’è modo di scendere?» chiedo. Mi guarda strizzando gli occhi, come se cercasse di scoprire cos’ho che non va. Mi indica col mento una scala che scende ripida rasente al fianco della collina. Fa più paura del cimitero. Quando mi volto per ringraziarla la vecchia è già ripartita.
Visto dal basso è un luogo surreale. Le lapidi ancora in piedi pendono in ogni direzione, non c’è ordine, nessuno schema. Le pietre sono lisce da entrambi i lati, nessuna scritta, nessuna incisione.
Mi siedo su una lapide e apro l’agenda. Sulla prima pagina c’è una dedica. “Insegui sempre i tuoi sogni”.
Il sogno di Alice era vivere in campagna. Avere dei bambini. Cani e gatti. Una capra magari. Io non sapevo sognare e non ho ancora imparato. Lei non riusciva ad accettarlo. A lei Pasolini richiamava l’amore per la vita rurale, a me ha sempre ricordato che tra i ragazzi di Ligugnana, Rosa e San Giovanni non c’è differenza. Siamo tutti comparse, tutti sostituibili. Adesso queste lapidi bianche sembrano darmi ragione.
Qualcosa striscia fra l’erba bagnata. Un animale, o forse un’altra lapide si è arresa al cedere della terra. C’è un fazzoletto di terreno libero. In mezzo all’erba una fenditura. L’acqua ci scivola dentro, allargandola. Se prima era un taglio nella terra ora misura due spanne e continua a crescere. Quando smette è larga più di un metro e alta come un uomo.
Sento una voce. È ruvida, soffocata. Sembra arrivare da sottoterra. Mi chiama, ma non per nome. Il mio nome è già scomparso.
Lascio cadere l’ombrello sull’erba e scendo nella fossa. È abbastanza profonda da potermici sdraiare. Il contatto con la terra bagnata sulla schiena mi provoca un brivido, ma è questione di un attimo prima che il ventre umido del cimitero diventi confortevole. Giungo le mani sul petto, sopra l’agenda di Alice. L’odore pungente di terra bagnata mi riempie le narici. So cosa mi aspetta, la voce continua a parlarmi. Non cerca di consolarmi, non ce n’è bisogno.
La fossa lentamente si richiude su di me. È tutto semplice, naturale. Non c’è dramma. Un’uscita di scena perfetta.
Herman Sapo Descontento è uno scrittore di racconti. Suoi testi appaiono in varie riviste letterarie e di genere, quali N2, In fuga dalla bocciofila, Il lettore di fantasia, L’equivoco. Altri sono stati pubblicati all’interno di concorsi di genere come il premio Esecranda. Nel fantastico predilige il lato oscuro, le incarnazioni malefiche e le distopie disperate. Ama le fotografie in bianco e nero e le giacche di velluto a coste. Odia chi scrive di sé in terza persona nel tentativo di sembrare più interessante.
Questo racconto scritto appositamente per lo Scartafaccio è ispirato e anticipa una raccolta weird in via di scrittura, tutta ambientata nel piccolo paese rurale di San Milvio.
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