Mi hai notata per caso durante una battuta di caccia che non prometteva niente. Sempre per caso, ti ha colto una curiosità inattesa e ti sei spinto oltre il primo tappeto di felci, mosso da un desiderio di conquista. Volevi vedere, toccare, calpestare un territorio in cui speravi non fosse mai entrato nessuno. A parte i caprioli, lo sapevi che passano di qua tutti i giorni, ma loro non contavano. Poteva essere quello il punto d’arrivo della tua avventura: vedere un capriolo, o una cerva che mangia indisturbata, e magari spararle, o spaventarla per guardare mentre salta via e svanisce tra le fronde.
Sei andato avanti e, siccome ti annoiavi, ti sei messo a guardare in basso, tra i muschi fluorescenti e morbidi ai piedi degli alberi, in mezzo strati di foglie appiattite dagli anni, ma non ti sei fidato dei funghi. Troppo appariscenti, troppo violacei o dalle forme troppo insolite. Ti facevano così paura che non hai nemmeno osato toccarli, e ti sei raccontato che quello che provavi era solo ribrezzo.
Andavi avanti e raccoglievi rami secchi, morti, e li rompevi a metà con un calcio o con le mani, se erano sottili. Hai raccolto un ciclamino perché hai pensato che fosse l’unica cosa bella lì intorno, ma poi ti sei detto che uno stupido fiore non poteva essere il fine della tua ricerca e l’hai buttato a terra, dopo averne spezzato il gambo.
Sei andato avanti ancora, hai schiacciato sotto i tuoi scarponi altri ciclamini e hai calciato via i sassi, frammenti di montagna, che incontravi sul tuo cammino. Poi hai trovato il muro di liane intrecciate e ti sei esaltato: hai visto la tua impresa trasformarsi in un racconto memorabile. A prescindere da ciò che avresti trovato dopo, almeno potevi provare con i graffi sulle braccia di aver lottato, con il tuo coltello, per scalfire quei serpenti legnosi. Hai reciso intrecci che duravano da secoli per farti un varco e passare oltre.
La gazza ha segnalato la tua presenza e hai cominciato a sentirti osservato e a procedere più cauto. Le latifoglie colorate ti hanno sorpreso, il verde era sparito sia dai rami che dal suolo. I licheni sui tronchi erano bluastri e alzavi di continuo lo sguardo, forse per vedere se scorgevi un pezzo di cielo, ma invano. Per un attimo hai pensato che ti bastasse, che quella fosse già la tua avventura, ma invece no, non ti bastava. Volevi il tesoro, o il sangue, solo così saresti diventato un eroe. Non potevi mollare proprio a pochi passi dal traguardo, qualunque fosse la tua idea di traguardo.
Hai preso ad avanzare di soppiatto, a muoverti tra un albero e l’altro come per non farti vedere. Speravi forse di riuscire vedere un lupo prima che lui vedesse te? Ci hai pensato, dì la verità, quando gli alberi si sono stretti l’uno all’altro, e loro rami bassi e pieni di aghi ti sfregavano la faccia e ti pungevano le labbra. Poi il terreno è diventato scivoloso, umido, inospitale. Procedevi a fatica nella neve e a ogni passo non sapevi quanto saresti sprofondato. Al punto in cui i larici si sono spogliati, una distesa di aghi come un tappeto dorato sulla neve, hai iniziato a dubitare di te. Pensavi che nessuno ti avesse sentito, e invece uno stormo di gracchi appollaiati sui rami più alti è svolazzato via all’improvviso e ha gridato il tuo timore ai quattro venti. Allora il pericolo non importava più, non potevi più fermarti, ormai eri a un passo dal tuo obiettivo, e così sei andato avanti, come ti hanno insegnato, nella neve sempre più alta, oltre i tronchi spogli, oltre le rocce sparse.
E così sei arrivato qui, al cuore della selva.
Un cuore che in realtà è una bocca e anche uno stomaco e un cervello e un sistema nervoso. Un cuore affamato che adesso sta aprendo le sue fauci sotto di te. Mi sei sprofondato in gola urlando e piangendo, hai provato a dimenarti ma non c’è stato verso di uscire dal vortice di terra e neve che ti risucchiava e soffocava nel mio esofago. Le radici ti hanno trafitto e sminuzzato per decomporti meglio, e sono certa che quando hai capito di non avere scampo, hai pensato ai tuoi cari, per dirti che sentiranno la tua mancanza. Non sei buono, ma sarai nutriente.
Ora parti di te vagano nell’intestino della selva, negli strati del sottosuolo dove ti possiamo trasformare e assorbire. Non temere, non smetterai di esistere, solo non sarai più tu: diventerai noi, diventerai selva.
Erica Mazzi ama da sempre leggere e ascoltare storie. Ha studiato lingue e letterature straniere e traduzione. Per lo più insegna, traduce, studia e ogni tanto scrive.
Ha tradotto, insieme ad Alice Provenghi, “Tutto ciò che la luce tocca”, di Janice Pariat, pubblicato da Salani nel 2024, un romanzo che le ha regalato un nuovo sguardo e tante parole sul mondo vegetale.
Ha scoperto il weird da poco e per caso, durante la notte bianca di un paese di provincia, in cui la copertina di un libro l’ha letteralmente guardata da una vetrina e da allora non ha smesso di lasciarsi inquietare.
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