Qualche giorno fa avevo chiesto su IG se fosse gradito un bundle che raccogliesse tutti i racconti del calendario dell’avvento. La risposta è stata positiva. Quindi ecco qua: tutti i ventiquattro racconti (più uno bonus) che sono sono stati pubblicati dal 1. al 24 dicembre.
ATTENZIONE: il Signor Simone Cicali, che è un patatone, ci regala anche la raccolta in formato EPUB.
Il Pacco, Giuliano Olivotto
La sonda automatica trasmise il primo segnale di allarme alle 23:58 della vigilia di Natale. Qualcosa di non classificato si era agganciato alla stazione spaziale commerciale Yule One, mascherato da innocuo pacco regalo.
L’analisi spettrale non rilevava nulla di anomalo.
“È un messaggio”, sussurrò l’astrofisica Zhang. “Loro… loro hanno osservato le nostre trasmissioni per secoli. Hanno visto il nostro rituale dello scambio di doni. Vogliono partecipare.”
Il capitano Miller fece portare l’oggetto a bordo violando ogni protocollo.
Quando il pacco iniziò ad aprirsi da solo, nessuno riuscì a distogliere lo sguardo. E poi iniziò a “disimballare” la realtà stessa.
A volte, nelle notti di Natale particolarmente limpide, i telescopi sulla Terra captano strani bagliori dalla porzione di spazio che una volta ospitava la stazione Yule One: sono i membri dell’equipaggio che, trasformati in qualcosa di incomprensibile, continuano a scambiarsi eternamente doni che nessuna mente umana dovrebbe ricevere.
Il piccolo cimitero, Bonny Zed
Il signor Jacob viveva poco distante dal paese, sul limitare del bosco. Era il custode di un piccolo camposanto. Lui lo chiamava “il mio piccolo cimitero segreto”. Lo curava con l’amore che si dedica a un giardino. Si occupava da solo di tutto, dalla manutenzione alla pulizia. Potava le piante e gli alberi; metteva i fiori nei vasi dei trapassati che non avevano nessuno che li andasse a trovare; doveva scavare le fosse in cui calare le bare in legno che costruiva personalmente a mano con amore e dovizia; l’identica dovizia con cui, lui stesso, scolpiva le lapidi che poi posizionava a terra; si prendeva addirittura la briga di portare le persone al cimitero. Alcune avvelenandole, altre strangolandole oppure pugnalandole. Ma tutte con amore e dovizia.
Call Center, Sam
– Pronto, sono Valentina. In cosa posso esserle utile?
– E.T. telefono casa…
– Benissimo! Abbiamo una formula casa, telefono fisso più cellulare e internet. Le piace questa opzione?
– E.T. telefono casa…
– Allora vuol dire che lei non è interessato alla nuova formula cellulare e Hurry Up più fisso. L’ha vista la réclame col cane?
– E.T. telefono casa.
– Va bene. Allora ho un’opzione sul solo fisso che però in proporzione è più cara dell’altra. Le potrebbe essere utile un abbinamento con l’ufficio?
– E.T. telefono casa, telefono casa, telefono casa!
– Desidera un abbinamento col numero del partner ?
– E.T. telefono casa, casa, casa, casa, casa!
– Ho capito! Ho capito! Non si arrabbi! Sto lavorando per Lei! Ci sono una quantità di offerte così allettanti! Così convenienti…. Le interessa la tribù? Magari le interessa la tribù? Le interessa?
– E.T. … Clic.
Yule, Frank Stria
«Joe, si può sapere perché rimani con la porta aperta con questo tempaccio?»
Patty osservava la mano del marito sulla maniglia, la mole ingombrante che oscurava quello che c’era fuori dalla casa, oltre la neve e la notte. Joe si riscosse e si scansò dall’uscio, rivelando una figura lattiginosa che fluttuava davanti al gradino. La neve bagnava la testa pelata di zio William. Era del colore dei molluschi morti, come quelli sulla spiaggia di St. Finian’s Bay, quando Patty raccoglieva le alghe per la zuppa.
«William, ti… ti aspettavamo per Samhain», balbettò Joe mentre seguiva con lo sguardo i filamenti trasparenti, di quelle che una volta erano le gambe dello zio, strisciare sul pavimento.
«Sono in ritardo, lo so, ho avuto un contrattempo. Credo di essere scivolato giù per la scogliera» gorgogliò lo spettro.
«Beh sei arrivato in tempo per Yule.» Patty allungò un boccale di sidro allo spettro, sperando che non cadesse sul pavimento appena spazzato.
«Buon nuovo inizio, zio William!»
Secondo tragico Natale ad Arkham, Ferraiuolo Nello Daniele
«Amoreee, vieni. Ho sfornato i biscotti di natale!»
«Andiamo all’assag… »
«Cosa?»
«Hanno un sapore strano… come… come di vuoto»
«Il vuoto non ha sapore, al massimo ti si forma nello stomaco»
«Tesoro, con cosa hai fatto i biscotti?»
«È una ricetta tradizionale.»
«Perché c’è un buco nero nel biscotto?»
Al centro del biscotto c’era un buco nero supermassiccio con una massa corrispondente a quattro milioni di masse solari. Circondato da un anello di materiale incandescente, oscurato da una coltre di gas, polveri e stelle che gli orbitano intorno.
«Devo cambiare la ricetta.»
«E gli ingredienti!»
«Naahh quelli no, sono tutti a chilometro zero.»
«Eh sì, chilometro zero. Negozietti strani e spilungoni?!»
«Cosa insinui!»
«Stiamo ancora pagando le case dei vicini dopo l’ultimo natale!»
«Ah i vicini! Ho dato i biscotti anche ai figli dei vicini… almeno quelli sopravvissuti.»
Nel quartiere fioccarono piccoli buchi neri dalle dimensioni variabili.
«D’ora in poi, cucino io.»
«Questo è Mansplaining!»
Affari in ombra, Sara Lepore
«Rivoglio la mia ombra!» piagnucolò Sam, piantandosi davanti alla bancarella indicatagli, di quel losco mercato. Il venditore, un goblin con un berretto sgualcito che gli scendeva sulle orecchie, lo scrutò per un attimo, poi scoppiò a ridere. Attirò l’attenzione di altri brutti ceffi lì intorno, che lo imitarono. «Ah sì? E ce l’hai un gruzzolo per riprendertela?» Sam tremò. «Non intendo pagare. Qualcuno me l’ha rubata.» Il goblin incrociò le braccia, sogghignando. «E sei sicuro che voglia tornare con te?» Qualcosa premette sulla sua spalla di Sam. Si voltò: era la sua ombra, con un sigaro tra le dita, che gli sbuffò una nuvola di fumo dritto negli occhi. «Sam, levati di torno,» indicò un tavolino dove altre ombre giocavano a poker. «Non vedi che sono occupato?» «Ma tu sei mia…», mormorò Sam, confuso. L’ombra ridacchiò, gettando via il sigaro. «Sicuro?» Replicò maligna, poi si rivolse alle altre ombre, intente a contare delle banconote. «Quanto mi date per un ragazzino in salute?»
La foto, Giulia Iacobini
Dannazione! È la terza volta in due mesi che la foto scompare. L’ultima volta ho sigillato la cornice con il silicone per evitare che la sfilassero. Eh sì, perché non staccano tutto il pezzo ma rubano solamente la carta stampata. Che poi mi chiedo, cosa ci faranno mai? È un feticismo o più semplicemente un gioco di cattivo gusto? Non si scherza con i sentimenti altrui, specialmente se si tratta di un lutto, specialmente se il morto è tuo padre venuto a mancare prematuramente. Ora rimetto la foto e aspetto davanti questa tomba finché non ne vengo a capo. Dopo tre giorni di attesa ho scoperto cosa accadeva e ancora sono abbastanza sconvolta. A togliere quella maledetta foto è proprio mio padre. Ero lì mezza assonnata e infreddolita quando vedo un’ombra che si avvicina alla lapide. Al mio grido d’allarme quella figura si gira sorpreso ed era proprio lui! “Caterina, luce dei miei occhi. Questa foto fa schifo. Cambiala per piacere. Ti voglio bene.”
Una carola di Natale, J.B. Fleming
“Falalallalà lalallalà coff coff” Lanciai uno sguardo di panico a Jake accanto a me. Alzai la voce, anche a costo di rovinare l’esecuzione. “Tis the season to be jolly,” e lui “coff coff lalallallà.” Mi guardai intorno, sempre intonando la carola. Non bisognava mai interrompere il canto nella cripta. Ma non c’era acqua e gli altri coristi tardavano. Il turno della notte era sempre il più rischioso. Jake era piegato in due a tossire. Pensai in fretta e poi accennai: “Oh when the saints, go marchin’ in?” sperando che lui capisse la mia domanda. Alzò tre dita della mano destra. Mancava un’ora alle tre. “Oh when the saints go marchin’ in” fui costretto a proseguire, pregando con tutto me stesso che la mia sola voce bastasse a tenere a bada il mostro fino all’arrivo dei rinforzi. Strofa dopo strofa cantai, inventai parole, ripetei i ritornelli, finché la mia gola riarsa non cedette. Due occhi gialli si aprirono nel buio del sotterraneo. La fiamma del drago mi consumò, come una candela.
Prede, Demis Zampelli
Era riuscito a ucciderlo. Un solo colpo, al cuore, e il capriolo si era accasciato. Adagiò la preda sulla slitta e s’incamminò verso casa. All’improvviso un rumore ruppe la quiete. Seguì il suono, finché la vide: una bambina, seduta sopra un tronco, stringeva due boccette di vetro facendole cozzare tra loro. «Che fai qui da sola? Ti sei persa?» La bimba si voltò, il viso angelico, le pupille sbiadite che annegavano nelle sclere biancastre, poi si strofinò gli occhietti ciechi. «Sto giocando con le anime.» «Anime?» «Già già!» L’uomo provò ad afferrare una boccetta, ma lei si ritrasse. Stupito fissò la bambina: aveva spalancato la bocca. Un impulso irrefrenabile lo costrinse a fare lo stesso. Percepì una parte di sé separarsi ed entrare nella bocca della bimba. Quando la piccola soffiò l’anima dentro una boccetta, il corpo dell’uomo crollò a terra come un burattino dai fili spezzati. «Chissà perché fanno sempre così» disse la bambina, scuotendo le boccette
Festività, Pancake
Questo dannato consumismo finirà per uccidermi. È il quattro novembre e i negozi già iniziano con le promozioni natalizie. E io devo stare attento a dove cammino. Dov’è finito il rispetto per Halloween? Cos’ha questo vecchio di rosso vestito più degli spiriti? A parte dei chili di troppo, ovviamente. Anni fa, una volta affiorato la notte di Halloween, avevo più di un mese per andare a zonzo, divertirmi un po’, rubare un’anima qui, mangiare un bambino lì… poi, quando le candele comparivano alle finestre, e la notte diventava troppo chiara, era ora di tornare negli inferi. E invece, ormai il mio giorno preferito non fa in tempo a finire che la gente comincia a decor-AAAH! Diamine, c’è mancato poco! Per fortuna che c’era quest’angolo buio dove ripararsi. Quella renna luminosa al terzo piano era potentissima! Questo mondo non è più fatto per i demoni come me.
Lavoro notturno, Erica Mazzi
Mi sembra tutto a posto: i mobili verde marcio, le teche opache, le file di oggetti di incomprensibile utilità, il suono del vuoto e l’odore stantio: in questo museo invecchiato non viene mai nessuno, eppure serve qualcuno che lo pulisca, e tutto sommato non è male come lavoro. Sono le quattro di mattina e ho già finito, devo solo mettere via l’aspirapolvere e poi sono libera. E chiudere la porta finestra. Lui è lì, seduto a un tavolo sul terrazzino e sta per dare il primo morso della sua colazione. Mi guarda sorpreso, poi ci salutiamo, senza toccarci. Vorrei andare via mai lui continua a farmi domande e io rispondo perché parlare mi sembra il modo migliore per mantenere una distanza fisica. Mi sfugge qualcosa sui miei orari, ecco, ho sbagliato di nuovo. Me ne vado senza chiudere, al mio fidanzato non dirò niente. Esco dal museo e mi sveglio col fiatone. Sono in piedi accanto al letto. Il mio fidanzato dorme. Il mio ex si è appena alzato e ha scoperto dove lavoro.
Il B&B, Simone Scaffarini
Dopo il terremoto e la chiusura del rifugio, Robbiano era rimasta fuori dalle rotte escursionistiche. Ma avevo sbagliato a leggere la mappa, ed era troppo tardi per tornare indietro. Avremmo dovuto chiedere ospitalità. Alla prima porta, una vecchietta ci aveva scacciati: “Non dovreste essere qui. E state alla larga dal Bed and Breakfast. Tinca aveva una moglie giapponese, che è scomparsa nel nulla.” Che fortuna, a Robbiano c’era ancora un B&B. Felici, suonammo alla porta: un tizio si presentò come il signor Tinca. “Di qua non passa più nessuno. Vi faccio un buon prezzo.” Quella sera Rosco mi disse di aver incontrato una ragazza in giardino. C’erano due gradi sotto zero. Risi di lui. Raccontò di averla baciata, ma nessuno di noi gli credette. Quando entrò in cucina, prese qualcosa dal cassetto e si gettò sul signor Tinca, però, tutti capimmo. La sua mano, mentre lo accoltellava, non era la mano di Rosco. Era la mano di una ragazza, affusolata e pallida.
La vigilia di Halloween, Lilla
“Ma cosa ti salta in mente?”, urlò Sandra, picchiando sulla porta del vicino. Dopo un attimo, sulla soglia apparve Franco travestito da Frankenstein. “Desidera?” disse con tono teatrale. “Franco, smettila con questa pantomima e spiegami il motivo del tuo gesto”. Franco guardò Sandra dall’alto in basso e poi rispose: “La sua auto parcheggiata così oscura le mie decorazioni. Oggi è la vigilia di Halloween, desidero che tutto vicinato ammiri il mio capolavoro!” Sandra rilanciò piccata: “Franco, ho due gemelli e un passeggino, non posso parcheggiare lontano!”
Franco spalancò le braccia e alzò gli occhi al cielo, quando una voce spettrale lo fece trasalire. Dietro di lui fluttuava una figura evanescente con degli stracci in microfibra in mano. “Oh no, nonna! Ma sei in anticipo?” sbottò Franco. “Franco, sei uno stupido! Quante volte devo dirti di non fare dispetti ai vicini? Chiedi scusa e vai a pulire l’auto di Sandra. Il puzzo di uova è così forte che mi ha fatto risuscitare prima del tempo.
N4t4l3, Ameba Unicellulare
Il centro commerciale era deserto, a tenergli compagnia solo l’echeggiare dei passi metallici. I colleghi avevano parlato di quella novità per giorni. “Finalmente quello spilorcio del Capo si è fatto crescere un cuore.” “Secondo te è successa una cosa tipo Canto di Natale?” “Ma va’, si sarà stufato di pagarci gli straordinari. Altro che spirito natalizio! Tanto ormai c’è l’omino di latta a fare il lavoro sporco per noi”. Natale. Era il suo primo anno di operatività e quel nome gli giungeva nuovo. Aveva provato a inserirlo sul motore di ricerca del suo sistema. Natale: festa umana. Foto di alberi addobbati e caminetti accesi si proiettarono davanti ai rilevatori biometrici. Chissà se anche le case dei suoi colleghi erano decorate così. Fece un giro del piano. Nulla di sospetto. Forse quella ricorrenza – Natale – era importate anche per le bande che ogni tanto devastavano i negozi in centro. Le lucine spente pendevano dal soffitto come ragnatele artificiali. Un motivetto allegro che proveniva da fuori si diffuse nell’aria. Scosse la testa: doveva tornare ai suoi doveri, era stato programmato per quello. Un ultimo sguardo alle decorazioni. “Buon Natale, Unità di sicurezza 112”.
Scoop, Alice Cervia
86 anni, capelli viola, permanente granitica, Ermelina aveva iniziato a redigere ‘Il Bollettino’ quando ancora faceva parte della ProLoco. Col passare del tempo, il resoconto di sagre e tombole aveva cominciato ad andarle stretto. I suoi interessi spaziavano infatti dalla telecinesi al complottismo alieno. “Il sindaco di Borgo al Torrione è un rettiliano, tutte le prove” titolava l’ultimo numero: si rivelò troppo persino per la blanda indifferenza locale, scatenando un putiferio su piccola scala. Quella sera le suonarono alla porta. Ermelina aprì, uno spiraglio appena, stringendo fra le mani un amuleto in rame che proteggeva indistintamente da malocchio, artrite e campi magnetici. Il Sindaco raccontò di essersi recato là per un chiarimento e di aver soccorso l’anziana, svenuta nell’aprire la porta. Ermelina, al telefono, spiegava invece al suo proponipote preferito: “Mi ha stordito con la luce verde rettiliana” Il pronipote si grattava il naso con una mano squamosa e sorrideva.
Il buco nel mu, Simone Cicali
Quel buco nel muro, quel piccolo buco nell’intonaco del ripostiglio che c’è da sempre, mi fa ammattire. L’ha stuccato mio padre, l’ho stuccato io, ci abbiamo messo un tassello per un gancio per renderlo utile: niente. Dopo mezza giornata lo stucco cade fuori, il tassello si allenta e cede. Ci ho messo anche del nastro davanti: si stacca. Ci entrava a malapena il tassello, ora ci entra una matita, quindi a forza di tentativi di chiuderlo lo sto pure allargando. La matita non tocca il fondo del buco, ci deve essere un’intercapedine. Quando ci ho infilato la tirafili da elettricista se l’è ingoiata tutta, cinque metri, e non m’è riuscito di farla sbattere per capire dal rumore dove vada a finire. Forse c’è dell’isolante morbido. La torcia non mi aiuta, manco a dirlo. Non mi resta che allargarlo, vedere se con un pezzo di mattone e il cemento… No, niente da fare. La mano, il braccio, non tocco il fondo. Martello, scalpello, sudore, finché in quel buco buio non riesco a mettere la testa e
Il pasto, Arianna Pioli
Una volta, la Pecora Dolie e il Lupo Al si scrutavano oltre il recinto elettrificato. Il Lupo Al aveva una gran fame e voleva giocare d’astuzia. Raccontò alla pecora della bellezza del pascolo libero e della bontà dell’erba fresca rispetto al mangime e le assicurò di essere sazio e che non l’avrebbe mangiata. Se voleva uscire doveva ascoltare però il suo consiglio. E Dolie lo ascoltò: seguendo le istruzioni di Al, con un colpo di zoccoli, fece cascare l’acqua dell’abbeveratoio su uno dei fili scoperti del recinto, che andò in cortocircuito e interruppe la corrente. Finalmente libera, Dolie saltò oltre, atterrò sopra al Lupo, spalancò le fauci e lo sbranò senza neanche dargli il tempo di stupirsi. La sera, il pastore trovò una splendida pelliccia di Lupo e la usò come tappeto da mettere davanti al camino. Dolie, ancora intenta a leccarsi il muso e i denti, si accomodò sopra alla pelliccia e si lasciò coccolare dal pastore. La morale di questa favola è: non mangiare mai ciò che non conosci.
I barbagianni, Giulia Iacobini
Non ho mai capito se mio figlio fosse matto o se avesse un’immaginazione che andava aldilà di ogni umana comprensione. Aveva 6 anni e viaggiavano sulla metro. Vedo che fissa un signore davanti a noi, un tipo particolare che aveva attirato la mia attenzione per come muoveva la testa e perché sottolineava il libro che leggeva con la penna. Sirio interrompe i miei pensieri “Mamma ti ho raccontato di quando i barbagianni mi hanno portato via? Quel signore sembra uno di loro”. Ah sì, mio figlio sostiene di aver vissuto svariate vite passate e anche in altre realtà e se ne ricorda la maggior parte. “In che occasione tesoro?” “Quando ero Lucilla, la principessa di Lapin. Il mago Dresta mi ha rinchiuso in una torre perché non voleva che ereditassi la corona. Ma lui non si aspettava che io sapessi parlare con gli animali, la mia balia mi aveva proibito di dirlo, e io sono stata furba! Così la notte ho parlato con il Re Gufo e lui mi ha mandato il suo esercito di barbagianni che mi hanno preso e salvata. E…” “Sirio amore, dobbiamo scendere, mi racconti strada facendo”.
Io sono l’albero, Mariafrancesca Distefano
Io sono l’Albero. Spezzato, tramortito, trascinato. Mi avete portato nella vostra casa e mi avete addobbato. Mi avete riempito di colla bianca e l’avete chiamata neve. Mi avete ricoperto di lampadine e le avete chiamate luci. Mi avete tagliato i rami. Mi avete rubato i frutti. Li ho dovuti guardare bruciare nel camino. “Mmm, che profumo!” Vi ho sentito dire mentre quelli si contorcevano tra le fiamme. Ho dovuto ascoltare le vostre canzoni stonate, i commenti stupidi che vi rivolgete l’un l’altro di nascosto. Avete deciso che dovevo custodire e vegliare quelle inutili scatole colorate. Ah! Ai miei piedi un tempo c’era terra brulicante di vita, umida, muschiosa, non certo questi sterili cartocci. Ma avrei anche potuto sopportare tutto questo se non mi aveste sottoposto all’affronto finale… La piccola creatura pelosa al quale rivolgete paroline dolci ora affonda i suoi artigli nella mia corteccia e graffia, graffia, graffia! Nel bosco avrei potuto averla vinta, sarei rimasto dritto, impettito, inamovibile. Invece adesso, qui, sono costretto a piegarmi. E cado rovinosamente! I miei aghi cosparsi sul pavimento. E gioisco, almeno, di avervi guastato la cena.
Le noci, Moedisia
Papà occupava tutto lo spazio. Il suo sbuffare nella stanza chiusa gualciva le tende, le sue ginocchia piegate graffiavano il soffitto. Quando mamma si lamentava dei pezzi d’intonaco che imbiancavano il pavimento, papà cambiava posizione. Si stendeva sul fianco, strizzava gli occhi per distinguere le emozioni sul tuo viso troppo piccolo, e in un sussurro che faceva fremere le pareti diceva: Portami delle noci.
Nelle mani di papà, le noci sembravano semi. Le sue dita sondavano il guscio, e quando il polpastrello del pollice individuava una fessura vi inseriva l’unghia e apriva la noce, facendo saltare via una metà dall’altra. – Non buttare i gusci. – Si raccomandava ogni volta. Molte volte: papà era goloso di noci, ma più di gusci che di gherigli.
Di notte, mentre il suo respiro ti cullava nel sonno, le noci tornavano integre. Solo sollevandole ti accorgevi dell’inganno, il frutto scomparso, la risata tonante di papà.
Senza papà la stanza è troppo grande.
Il soffitto è troppo alto, il pavimento opaco di polvere. Le tende cadono stanche alle finestre. Una fruttiera colma di noci con qualche distratta goccia di colla ricorda un vecchio scherzo.
Ne afferri una per saggiarne il peso, facendo forza separi le due metà, e la risata rimasta intrappolata dentro ti percorre e ti attraversa. Le noci sono piene.
Casella 23, Sara Lepore
«Casella 23, mmh mmh!» Strofinò le sue quattro mani con un entusiasmo inquietante, accomodandosi sulla poltrona di velluto macchiata da una poltiglia indefinita. Sul banco di lavoro, una casetta ingombrante, decorata da finestrelle numerate, mostrava ormai solo due sportelli ancora chiusi. Con un ghigno, si leccò le zanne affilate e tirò il pomello della finestrella numero 23. «Oh, le orecchie!» Esaminò il contenuto con attenzione maniacale, poi si avvicinò a un angolo della stanza, dove un corpo incompleto giaceva sul tavolo. Con ago e filo arrugginiti, iniziò a cucirle al cranio del suo umano in costruzione. «Questo sito merita davvero una recensione a cinque stelle!» borbottò, soddisfatto del frutto di ore passate a rovistare nei meandri del dark web. Lanciò un’occhiata alla casella finale. «Chissà se nell’ultima troverò finalmente gli occhi!»
Avvento, Alfredo Goffredi
Giocavamo tra i prati innevati fuori da Briascone. Illuminati dalla luce della Luna, ci rincorrevamo, facevamo a palle di neve, schiamazzavamo. Nessuno ci avrebbe sentiti. Le nostre famiglie partecipavano alla funzione serale e ci credevano addormentati; ma nessuno dei bambini di Briascone era nel suo letto. Nessuno poteva dormire quella notte. Quando la campana suonò il primo dei dodici rintocchi della mezzanotte ci fermammo. Non era più il momento di giocare. Ci prendemmo per mano e iniziammo a salmodiare parole che fino a pochi istanti prima non conoscevamo. Fu allora che vedemmo spalancarsi una voragine di luce rossastra, giù a valle. Mentre il paese sprofondava oltre quella soglia infuocata, grida di terrore e dolore si levavano al cielo, accompagnate da latrati che di certo non appartenevano a questo mondo. Quella notte l’Inferno era stato sulla Terra; al posto di Briascone c’era solo una cicatrice bruciata. La notte tornò quieta, riempita soltanto dal canto delle allodole.
Il silenzio, Stella Knoll
Dave non capiva, era evidente. E questa cosa mi feriva. Quando gli raccontai che la città mi faceva stare male, che il suo totale silenzio mi faceva sentire vuota, l’espressione di Dave diventava dubbiosa.
“Non è silenziosa, Joan. Senti che casino che c’è!”
“Non intendo il rumore delle macchine, ma non capisci?”
Dave si limitava a scuotere la testa.
Per Natale decisi che sarei tornata in campagna, almeno per le feste.
Con grande meraviglia Dave decise di accompagnarmi. Ero contenta.
“Non vedo l’ora di presentarti la mia famiglia e di farti fare un giro nei boschi intorno al mio villaggio.”
Quando scendemmo dal treno proiettile alla stazione del mio villaggio, la mia famiglia ci corse incontro. Presi un profondo respiro: finalmente a casa!
Mi girai verso Dave. Aveva un aspetto pallido, gli occhi sgranati. Piccole gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Mi fissò. “Lo senti anche tu questo rumore?”
Capii in quel momento che non era mai uscito dalla città.
Dietro al Conad, Stella Knoll
Come per i nostri nonni l’11 settembre e per i nostri genitori la prima pandemia moderna, per la mia generazione l’evento che ha segnato la nostra vita è stato il giorno nel quale il cielo ha cambiato colore.
Chiedi a chi vuoi: tutti ricordiamo perfettamente cosa stavamo facendo. Io, per esempio, stavo rovistando nei bidoni dietro al Conad.
Era sabato pomeriggio. Da anni facevo la “spesa” in questo modo, ripescando dalla spazzatura tutto quello che quei matti buttavano perché si stava avvicinando un po’ troppo alla scadenza.
Ero lì con una busta di farina di grilli texturizzata in mano, quando un rumore tipo “Whooomp” mi buttò a terra. Picchiai forte la nuca e quando aprii gli occhi il cielo sopra di me era rosa. Ma non un romantico rosa tramonto d’estate. Rosa shocking. E poi cominciò la spixelizzazione. E per fortuna, dico io. Perché non ce l’avrei fatta a mangiare ancora farina di grilli texturizzata.
BONUS: La vita, Stella Knoll
Non è vero che la vita finisce a trent’anni. Nemmeno a quaranta. Oserei dire che non finisce nemmeno a cinquant’anni. Anzi, per me la vita è cominciata proprio allora.
Mi ero lasciata alle spalle un classico matrimonio con figli e mi ero dedicata alla mia vera passione: le truffe.
Ora di anni ne ho 68 e sono in fuga.
Diciamo che il mio ultimo colpo è stato un po’ un azzardo. Approfittarsi di un vecchio affetto da demenza senile non è proprio elegante, nemmeno per una volpaccia stagionata come me.
Ma quando intravedo l’occasione di una truffa ben congegnata non ce la faccio a resistere. E poi non è che il nonnetto sia rimasta in mutande. È ricco sfondato, si vede. Già solo tutto il personale che ha, quei piccoletti affaccendati che non si fermano un attimo. Ha pure un maneggio con le renne. È che è troppo buono e si è fatto infinocchiare come uno scemo.
Ma ora torniamo alla mia fuga, che sento già i campanellini in lontananza.
vedo adesso la cit.
che dire.
😁