Sono una donna standard: marito, due figli, mutuo, lavoro in percentuale. Le ho tutte. Sotto sotto penso che mi sono fatta fregare.
Come diavolo fa una persona come me a scrivere. A scrivere veramente, intendo. Scrivere romanzi. Mica quei quattro racconti e le recensioni micragnose che pubblico qua. Scrivere, immergersi nella storia, lisciare le parole, fare ricerca, intervistare persone, piangere perché l’editor ti ha rimandato il testo ed è tutto un commento. Scrivere!
E invece mi ritrovo a dover ritagliare la mezz’oretta la sera, quando sono già stanca e l’unica cosa che vorrei è scrollare reel all’infinito. Oppure la mattina presto, appena alzata, ma anche lì: hai la pila del bucato che ti guarda, hai le merende da preparare, hai da rassettare il divano che ieri sera è stato lasciato come un campo di battaglia.
Se ripenso a quanto scrivevo quando avevo intorno ai vent’anni, mi vien da piangere. Non che fossero testi mirabolanti, questo no. Ma la quantità di parole, il tempo che vi potevo dedicare, il flow che riuscivo a cavalcare… ragazzi che roba. Andavo all’università, vivevo in un monolocale ricavato (credo) dal ripostiglio di un appartamento più grande, non avevo una preoccupazione al mondo (tranne forse non finire i soldi prima di finire il semestre). E scrivevo pure in due lingue!
Poi ho mollato l’università, sono tornata a lavorare, ho infilato in poco meno di un decennio un duplice lutto, un matrimonio e due gravidanze. Come potete immaginare non ho più scritto un rigo.
Ed eccomi qui, oggi, a riflettere se affrontare la pila dei panni puliti che sta per toccare i 180 centimetri d’altezza, oppure buttarmi sulla scaletta dell’ennesimo romanzo che ha fatto radici nel mio cervello. Perché sì, a una certa la voglia di scrivere mi è tornata. Ma non è mica più così facile.
Come fai a concentrarti, quando i “mamma?” scorrono al ritmo di uno ogni quindici-trenta secondi? Come fai a rispettare una routine se tuo marito lavora su turni irregolari e devi incastrare quattro cazzo di agende tutte diverse tra loro? Sacrifichi il sonno? Certo, perché avere una belva inferocita come caregiver è quello che tutti desiderano. E quindi ti limiti a buttare giù scalette, a concludere un racconto (quando va di lusso), ad abbozzarne millesettecentoventotto. Al momento ne ho uno ambientato in un bosco (anzi due), uno in una casa abbandonata, uno che parla di volpi con la rabbia, un tentativo di romanzo d’appendice, un paio di abbozzi di storie di fantasmi.
È veramente triste citare Virginia Woolf nell’anno del signore 2024 ma siamo ancora lì (alcune di noi, almeno): “…se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé”. E io, malauguratamente, non ho nessuno dei due. Il denaro dello stipendio se ne va in bollette, spesa e vabbé, libri. Ma il fatto stesso di guadagnare quello stipendio, pur lavorando part-time, mi toglie tempo e soprattutto energie. Lavoro in comunicazione: figurati se dopo una giornata a scrivere facezie trovo la forza di dare spessore alle mie storie. E la stanza tutta per sé mi fa rimpiangere amaramente di essermi innamorata di quel grande openspace che è l’area giorno di casa nostra. E sono troppo vecchia per mettermi a scrivere a letto (oltre al fatto che il mio laptop non riuscirebbe a sopportare di iperventilare sul piumino).
Amo profondamente trovare testimonianze di grandi autrici che parlano di questi crucci. Riporto qui uno stralcio dal capitolo dedicato a Nancy Kress, tratto da “Fantascienza, un genere (femminile) di Laura Coci: “Ho iniziato a scrivere perché avevo dei figli. […] Avevo un piccolino che correva dappertutto e vivevamo in campagna. Il mio allora marito prendeva la nostra unica macchina per andare al lavoro […]. Non c’erano altre donne della mia età nei dintorni. Stavo impazzendo. […] Quando i miei figli dormivano, ho iniziato a scrivere per avere qualcosa da fare che coinvolgesse parole con più di una sillaba.”
Vi lascio anche un pezzo di una vecchia newsletter, dedicata proprio alla maternità:
“Ma parliamo del coniugare l’essere madre con la passione della scrittura. Credo non sia azzardato dire che quello della maternità è uno dei punti chiave che hanno portato le donne a essere meno prominenti nella storia della letteratura mondiale. Occuparsi di una famiglia e in particolare dei figli, che nei primi anni abbisognano di attenzioni costanti, toglie tempo ed energia a chi vuole scrivere. Soprattutto in passato, quando la parità dei diritti era ancora un lontano miraggio anche nei paesi sviluppati, le donne non erano incentivate a inseguire la passione per la scrittura (sto usando un eufemismo, il discorso è molto più profondo e triste di così).
Ma facciamo qualche esempio di autrice con famiglia: c’è Shirley Jackson, che giostrava una casa, quattro figli, una carriera letteraria e un marito fedifrago che non sapeva nemmeno dov’era la cucina. Poi Doris Lessing, premio Nobel, che ha lasciato i figli del suo primo matrimonio (fallito) in Rhodesia, insieme al padre, attirandosi le antipatie di quasi chiunque. Abbiamo Ursula K. Le Guin, che invece nella vita familiare aveva trovato un suo preciso equilibrio, pur ammettendo che la cura dei suoi tre figli piccoli le toglieva molta energia creativa.
C’è un libro molto interessante, “The Baby on the Fire Escape”, della biografa Julie Phillips (purtroppo inedito in Italia), dove attraverso le biografie di diverse artiste e scrittrici si analizza il tema della maternità nelle carriere artistiche. Chissà che qualche nostrano editore coraggioso non se ne interessi.
Tutto questo per dire che le biografie delle autrici e degli autori sono sempre importanti per capire meglio la loro produzione letteraria.”
E voi, cosa ne pensate? So che è un tema che tocca solo metà del cielo, ma quella metà spesso non trova modo di farsi sentire. Ho già prenotato in biblioteca il saggio di Joanna Russ “Vietato scrivere: come soffocare la scrittura delle donne” e spero di poter continuare a parlare di scrittura femminile e ampliare il discorso insieme ad altre persone.
Stella, ho letto con interesse l’articolo. Sai quanto io sia legato al tuo contest mensile che mi ha ispirato e mi ispira. Ispirare e scrivere… o scrivere ispirati… o scrivere per far vivere altre persone nei miei pensieri. La scrittura fa parte di noi, è un bisogno ed un piacere. La vita è frenetica e piena di “cose”… ma c’è sempre un momento per scrivere (la lista della spesa non vale!), per chi ci crede e si impegna. Scrivere che gioia (lavoro, figli, casini vari inclusi). Voglio leggerti un giorno per viaggiare nei tuoi pensieri.
Giuliano, grazie delle tue parole. Spero che questo articolo non sia stato solo un mio sfogo, ma che vada a costruire qualcosa che mi faccia crescere. 😄
Ciao Stella, per quanto io non sia madre capisco questo malessere. Tra università, casa, lavoro, divorzio, animali e (sia benedetta) vita sociale, il tempo per scrivere qualcosa di creativo é ben poco. Nei momenti di relax l’unica cosa saggia da fare é dormire, staccare la spina di questo grande frullatore che é la vita. Mi ero ripromessa di scrivere almeno quella volta al mese i racconti brevi che proponi sulla pagina Instagram, non sono riuscita. Sono fermamente convinta che quando abbiamo una grande passione e l’accantoniamo sia solo per un periodo, breve o lungo che sia. Le idee, le ispirazioni per nuovi scritti si accumulano ma arriverà il momento in cui potrai sfogarti, banalmente quando i ragazzi saranno un po’ più grandi e potrai dedicare finalmente del tempo a te stessa. Essere adulti fa schifo, ma prima o poi anche gli altri lo diventano. Un bacione
Giulia, grazie! Ognuno di noi combatte una guerra di cui gli altri non sanno nulla. Io ho cercato di definire il mio disagio e questo ha fatto emergere in te la voglia di condividere il tuo. Ci saranno giorni migliori. Scrivere è una passione che non passa (lo so perché ho smesso di scrivere per più di dieci anni), quindi con pazienza aspetteremo e CI FAREMO VALERE!
ciao stellina, ho letto il tuo post è mi è venuta una stretta enorme al petto. non sono mamma, non ho un marito, né un mutuo e nemmeno l’open space, ho iniziato a vivere sola e ho “una stanza tutta per me” (ho solo quella, una casa intera non è fattibile nonostante il lavoro, ché in questo paese sei poverə anche se hai un bel full time) e, insomma, anche se la mia situazione è diversa, il risultato non cambia: se passi dieci ore fuori casa tra autobus e ufficio, poi torni e devi cucinare/pulire/lavare i panni/fare tutta quella roba necessaria a non vivere in un porcile, poi non c’è il tempo né le energie per essere creativə. io, personalmente, al massimo riesco a leggere quattro pagine e poi svengo. se agli impegni ci aggiungi anche che non tuttə abbiamo le condizioni fisico-mentali ottimali per sostenere tutti gli impegni e la fatica…
ho sempre pensato che la creatività sia una questione di classe e di giustizia sociale: chi può passare giornate intere a scrivere/dipingere/fare musica/ecc. è chi può contare su una rete di supporto affettiva/relazionale/economica fisicamente vicina e sicura. ovviamente, è una situazione privilegiata, ma non mi piace che la parola “privilegio” abbia sempre una sfumatura di giudizio e colpevolizzazione. credo però che quelle famose “reti” di mutuo aiuto e supporto che ci vantiamo tanto di creare quando facciamo le grafichette carine su ig in realtà non esistano. sono reti di mutuo nulla, che svaniscono al momento dell’effettivo bisogno. se non dovessimo sobbarcarci da solə il peso reale ed emotivo di tutto, se potessimo contare sul supporto reale dellə altrə, probabilmente saremmo un po’ alleggeritə da una bella fetta di stress. se imparassimo che la creatività non è un lusso ma un bisogno e se riuscissimo a essere creativə non soltanto chiusə nella nostra cameretta ma insieme allə altrə – separando la creatività dalla necessità di mettere la nostra firma su un “prodotto” – riusciremmo a sovvertire questo sistema schifoso che ci vampirizza ogni energia.
♥
Clà, hai afferrato il tema per la collottola e gli hai dato una bella scossa.
Sottoscrivo tutto quello che dici.
In questa epoca di individualismo spinto, fare rete è difficile e volutamente non incoraggiato. Inoltre, il welfare state è sempre più stanco (in Italia direi moribondo, ma non ha mai goduto di buona salute in primo luogo). Chi rimane indietro secondo me è chi ha da sempre avuto meno voce: chi lavora i lavori non visti, chi vive vite non considerate vivibili. E quindi quelle che restano sono sempre le solite voci, le voci di chi si può permettere di fare un lavoro creativo senza morire di fame.
Per quanto riguarda il concetto di privilegio cito dal libro che sto leggendo ora, “Come non fare niente” di Jenny Odell: Solo perché è negato a molti (il diritto di fare niente, ndr) non significa che non sia un diritto o che sia meno importante.
E trovo che sia una risposta perfetta da utilizzare ogni volta che qualcuno tira fuori il concetto di “privilegio”. Molti di quelli che oggi vengono considerati privilegi sono in realtà nostri diritti, e fa bene ricordarlo.
Nel frattempo, visto che questo mondo malato non prende ancora fuoco, dobbiamo accontentarci di quello che riusciamo a fare, parlarne insieme, analizzare le questioni senza saltare sulle barricate del giusto o sbagliato. E cercare di volerci bene, nonostante tutto.
(ps: tvb)
Ciao Stella (sì, continuo a leggerti)
Mi si stringe il cuore a leggere il tuo sfogo, legittimo. Sono molto d’accordo con quello che ti scrive Clacca, qua sopra, e condivido anche la tua risposta.
Quello che molti non considerano è la “fortuna”. La fortuna si presenta sotto molte forme, tra cui appunto il privilegio (che, no, non è una cosa brutta, al massimo invidiabile).
È facile dare dei consigli in questi casi, meno facile applicarli. Non tutti hanno “la fortuna” appunto di ritrovarsi con una personalità adatta per poterli applicare.
Quello che puoi fare è accettare il fatto di essere meno fortunata di altri. Va accettato. Come dobbiamo accettare di avere dei limiti. Tutti li abbiamo. Alcuni possono essere superati, altri vanno accettati. Dall’accettazione ne deriva la libertà. Che non vuol dire solo non colpevolizzarsi.
Io in un certo senso, per quante sfortune abbia, mi considero anche un privilegiato sotto altri punti di vista perché non ho figli. Se li avessi sarebbe un grande problema e, nel 2024, non penso sia una cosa legata al mio sesso. Non capisco proprio perché le mamme debbano portare maggiori responsabilità in casa (ma questo è un altro tipo di problema, su cui vale la pena di riflettere magari). Però la vita assorbe tanto anche me. Quello che sono riuscito a fare io (sebbene mi pesi) è stato, oltre ad accettare i miei limiti e farci pace, accettare anche dei compromessi e fare dei piccoli sacrifici. Ad esempio ho abbandonato una lunga ben pagata carriera in ambito pubblicitario per dei grandi brand, per fare un downgrade e dedicarmi ad un lavoro che viene denominato “a bassa competenza”, con cui guadagno molto bene, ma che mi occupa LA META’ delle ore lavorative ed è privo di stress di qualsiasi tipo e che mi rende felice e mi regala tanto tempo libero per portare avanti il mio “altro lavoro creativo”. Ho rinunciato alla mania del controllo sacrificando l’ordine e la pulizia in casa. Ho sacrificato un bel po’ di vita sociale e di divertimenti fuori casa, sì. Ho anche eliminato tantissimo sport. Però ho trovato un equilibrio (per ora… perché comunque nulla è per sempre e le tramvate arrivano sempre e comunque), per tirare su quello che tu sai.
Compromessi. Accettazione. E pazienza.
Ma soprattutto (e questo è l’unico vero consiglio che posso darti) fai ciò che ti piace fare solo per puro gioioso divertimento senza pensare a dove possa o avrebbe potuto portarti. Divertiti e basta. Goditelo. Ritagliati del tempo e sii egoista.
I più grandi artisti sono stati dei grandi egoisti.
(spoiler: genera comunque sofferenza, mi spiace).
Grazie Zed, grazie per leggermi e grazie per esserci. Tu sei una di quelle persone che mi hanno fatto riflettere sulle storture degli ambienti social, con il loro volerti performativo e accattivante sempre. Forse è solo una cosa della “nostra” bolla, ma sento che questo sentimento ‘anti’ si sta diffondendo sempre più. E ne gioisco.
Non so quanto sia fortuna e quanto invece sia una cosa sistemica. Io sono figlia di intellettuali artisti, che avevano tanti problemi, ma mi hanno dato una base di pensiero critico importante. Chi questa base non ce l’ha non ha gli strumenti per capire certe dinamiche e non gliene si può fare una colpa.
Inoltre il mondo del lavoro ti vuole sempre più spremuto, sempre più stanco, così non rifletti e ti mangi la snobba mediatica che il capitalismo ti scodella.
Ma hai ragione: accettazione e pazienza. E parlarsi, discutere, analizzare insieme. Dedicare tempo al prossimo e alle proprie passioni, non importa se poco. E non importa se non siamo perfetti.
sì, credo di poterti dare una conferma: non è solo una sensazione, questo sentimento “anti social netwrok” si sta realmente diffondendo. C’è una voglia generale e diffusa di disintossicazione. E la gente la sta già mettendo in pratica da un paio d’anni. Purtroppo e per fortuna. Dico purtroppo perché comunque ci rimettiamo noi che facciamo contenuti e che abbiamo bisogno di un pubblico che invece è saturo e stufo. Ma è giusto così.
L’importante è che nessuno ci tolga mai il nostro “hobby” e la nostra voglia di divertirci anche da soli.
Un abbraccio fortissimo!
Refuso: ho scritto che ora faccio un lavoro “con cui guadagno molto bene”. Ma volevo scrivere “con cui NON guadagno molto bene”. Probabilmente un lapsus freudiano perchè le mie priorità nella vita sono cambiate e sono molto felice di vivere da povero. Non mi manca nulla di vitale. Sono appagato e mi basta (due anni fa ho lavorato 12 mesi a 600€ al mese, e prima ancora sono stato disoccupato per più di un anno… queste cose ti cambiano. In meglio secondo me)
Ahaha, mi pareva.
LOL ahahahahaHAHAAHHAHAHAHAHAHHA [risata isterica con occhio destro che balla]