Titolo: La leggenda della nave di carta, racconti di fantascienza giapponese
Autor*: A cura di Carlo Pagetti e Ilaria M. Orsetti
Editore: Fanucci collana Immaginaria Solaria
Anno d’uscita: 2002
Continua il mio (lento) percorso di approfondimento sulla letteratura fantastica giapponese, in particolare la fantascienza, iniziato con l’opera di Suzuki Izumi.
Quella che presento in questo articolo è una delle poche antologie ancora oggi disponibili di racconti di fantascienza giapponesi.
Si tratta di una raccolta di sedici racconti, di cui tre scritti da autrici. I racconti sono stati scritti e pubblicati in un arco di tempo che va dal 1950 fino al 1994.
Il libro in sé è molto interessante. L’introduzione accenna al fatto che lo sguardo sulla narrativa giapponese, in questo particolare caso, è distorto dalla doppia traduzione giapponese-inglese-italiano. Ho inoltre apprezzato la seguente puntualizzazione:
Certo, siamo sempre nell’ambito di un Giappone che noi scorgiamo con occhi occidentali.
Il prologo invece è composto da testimonianze di ragazzi sopravvissuti alla bomba di Hiroshima il 6 agosto 1945. Si tratta di una lettura dolorosa, ma anche necessaria per potersi poi immergere nei racconti. In queste testimonianze si sente chiaramente la vergogna di chi è sopravvissuto e che spesso ha dovuto camminare in mezzo ai morti.
Sembrò che un grosso martello mi avesse colpito alla schiena e che venissi gettata nell’olio bollente.
Alla fine del prologo viene da chiedersi: quanto della fantascienza giapponese postbellica è stato influenzato dallo scoppio dell’atomica? E quanto invece dai radicali cambiamenti sociali dell’immediato dopoguerra?
I racconti in sé spaziano moltissimo per tematiche affrontate e stili di scrittura.
Si inizia con un racconto del 1950 di Kobo Abe, uno dei più famosi e illustri esponenti del genere in patria, che ci racconta di un mondo dove le persone cominciano a sciogliersi e che denuncia in modo nemmeno troppo velato le differenze tra classe operaia e classe dirigente.
Abbiamo poi racconti di vero e proprio body horror con scatole di cartone coscienti (e terribilmente eccitate quando vengono riempite) oppure persone che si mutilano e divorano da sole. Abbiamo diverse forme di critica sociale che raccontano uomini e donne vegetalizzati per punirli delle loro posizioni radicali oppure di come viene sfruttato un buco apparentemente senza fondo che compare in un campo. Ci sono poi anche racconti più scanzonati come quello con protagonista una robot sensuale usata per aumentare la cifra d’affari di un bar.
Ma uno dei racconti che mi ha colpito di più, forse perché mi ha dato delle vibes simili a Suzuki Izumi, è Ragazza di Mariko Ohara, pubblicato nel 1984.
Vi lascio l’incipit:
La città era un frutto maturo che stava per cadere. Marciva dalle profondità del nucleo fino all’esterno e la sua carne corrotta era sostenuta solo un guscio sottilissimo.
Se la città fosse caduta, nessuno sapeva cosa ne sarebbe rimasto. Se le cose degeneravano ancora, persino l’inferno avrebbe chiuso i propri cancelli. Per gli abitanti della città non c’era via di fuga.
Il racconto vede protagonista un ballerino dalla sessualità fluida e casuale, intrappolato in una vita di stravizi, obnubilato dall’alcool e dalla venerazione del suo pubblico. Un racconto crudo dall’ambientazione splendidamente cyberpunk.
In conclusione, sicuramente è una raccolta che permette di farsi una prima idea della varietà che la fantascienza giapponese ha da offrire. È solo un peccato che non ce ne siano di più. Per chi volesse, è ancora disponibile la versione digitale sul sito di Fanucci.
Per approfondire:
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